“Allora, cosa volete sapere? Amore, salute, lavoro?”
La lampada gettava un cono preciso di luce sul tavolo in mogano al centro della stanza, sulla quale pesava una sensazione d’irreversibilità come se ci si trovasse all’interno di un’urna. Tutto intorno una penombra da parchetto market di spaccio rendeva le pareti indistinguibili e lontane. Solo l’odore di umido straccio rendeva chiaro che si trattasse di una cantina.
Nessuno dei tre aveva voglia di scherzare. Sapevano tutti il motivo per cui si svolgeva quella seduta. Il medium guardò ad uno ad uno i volti tesi e sciupati degli uomini che sedevano al suo tavolo. Fra le mani teneva una mutandina rosa, sporca di sangue, stracciata. Se la strofinava voluttuosamente fra le dita come ad assaporare una reminiscente consistenza carnosa. Nell’osservare quei tre in evidente difficoltà gli si era aperto un sorriso gelatinoso che mescolava sul suo volto le decine di nei, porri, protuberanze, pustole, cicatrici, cisti ed macchie varie tanto che si sarebbe giurato di vederle muoversi sulla sua pelle scura e lucida come una prugna e ridisporsi in un ordine nuovo, a formare una purulenta maschera di Rorschach sempre diversa.
“Vogliamo sapere cosa dobbiamo fare.” A parlare era l’uomo al centro, il più giovanile, capelli brizzolati alla fibra d’amianto e le sopracciglia folte come il pelo di un ratto.
“Esatto, non siamo mica qui a fare il gioco delle tre carte.” Fece eco l’uomo a sinistra. Era il più vecchio dei tre ma non se ne faceva un problema e sotto un’ampia pelata a uovo che gli lasciava solo un nido di capelli ai lati aveva un volto simile a quello di un gufo perennemente indispettito.
“E noi infatti non faremo il gioco delle tre carte.” Gli rispose calmo il medium.
“Dobbiamo metterci in contatto con uno spirito guida che ci illumini la strada.” Il terzo era quello nuovo, si vedeva dall’impaccio nei movimenti e rigidità nella postura. Con lui il buio era stato decisamente clemente, nascondendo un viso per cui Lon Chaney avrebbe potuto vincere l’Oscar.
“Bene bene, quanta irruenza.” Disse la faccia a minestrone, leccandosi in un baleno il labbro superiore. “Vi vedo molto angustiati.”
“Esatto, quindi cominciamo.” Gli rispose testa di asbesto. “Prima che cambi idea.” Nel guardarsi attorno vide su di un mobile quello che nella semioscurità sembrava il modellino di una villa di montagna. “Questo posto mette i brividi.”
“Abbiate fiducia. E ditemi: chi volete chiamare?”
“Qualcuno che sappia gestire questa ondata di esagitati digitali, i social bloggher, i democratici internettiani!” Fece il bozzetto scartato di Frankenstein.
“Si ma chi?”
“Il primo di tutti: Camillo Paolo Filippo Giulio Benso, conte di Cavour, di Cellarengo e di Isolabella.” Precisò il rapace notturno con una soddisfazione di un metal nerd che enumera tutti gli album degli Black Sabbath.
“Va bene, si può fare.” La dadolata di nei mise le mutandine da parte, a malincuore.
“Allora cosa stiamo aspettando?” Asbesto era impaziente.
“Siamo pronti: prendiamoci tutti per mano, chiudete gli occhi, cominciamo la sintonizzazione.”
Cosa sia passato di lurido da quelle mani negli anni è impossibile descriverlo tutto in un racconto da leggere al computer come questo, per il bene dei vostri occhi e della vostra vita sociale. Posso solo dire che in quel momento, in quella stanza, quei quattro stavano facendo fluire attraverso i loro corpi una fortissima energia massmedianica, roba che se il medium non fosse stato esperto e già masturbato avrebbero potuto anche prendere dal satellite i canali snuff criptati.
Sul tavolo era stato aperto un abbecedario con sopra una miniatura del Duomo di Milano, lo spirito avrebbe comunicato coi vivi muovendola sulle lettere con la forza della sua energia telecinetica. Per semplificarvi la lettura, laddove è possibile, scriverò la frase direttamente come è stata composta.
La statuetta mosse i suoi primi passi: “Chi mi cerca?”
“Siamo noi, Conte, a cercarti, tuoi umili servi.” Dei quattro da questo momento in poi sarà solo il medium a parlare, gli altri dopo aver riaperto gli occhi ascolteranno in silenzio per non confondere il nume e rischiare di interrompere il contatto.
“Ah sei tu? Cosa vuoi ancora? Non ti è bastato il cadavere di quel bambino che ti ho fatto scoprire ieri?” La miniatura del Duomo schizzava da una parte all’altra come fosse un’anguilla a possederla.
“Ehm, non so di cosa parla.” I tre puntarono gli occhi sul medium, i cui nei per l’emozione si erano disposti a forma di goccialona di sudore sulla tempia. In realtà il loro sguardo non era di stupore, quanto d’impazienza. Lui se ne accorse e un poco sollevato riprese a parlare.
“Scusate, Conte, se le faccio questa domanda impertinente, ma capirà che in queste cose è meglio essere chiari: lei è lo spirito di Camillo Benso, vero?”
“Certo che no, sono quello di Giulio Andreotti.” Il souvenir questa volta si era mosso quasi a rallenty per dare pathos alla rivelazione. La catena energetica per poco non si spezzò in un balzo.
“Presidente ma ho parlato con lei ieri sera al telefono lei non può…” Mentre pronunciava queste parole il medium collegò. “Ma lei… allora… è morto?”
“Ma no! Solo i vivi possono morire. Io esisto e questo è un fatto fuori dal tempo e dallo spazio. Ovunque e per sempre. Può morire il mio involucro, certo, e mi spiacerebbe: così umile, così sicuro, così inviolabile. Ma questo non vuol dire che io smetterei di esistere. Ora, per favore, ditemi cosa volete che ho una partita a gin in rete fra dieci minuti.”
I presenti, quelli in carne e ossa, erano sconvolti dalle parole composte dalla statuetta tarantolata, l’unica a sembrare viva in quella stanza. Ma rimanevano ancora ansiosi di ricevere indicazioni.
“Ecco, vedi questi nostri fratelli qui? Sono pieni di angosce per il loro futuro politico e sono venuti qui per avere consigli sul da fare in un momento così difficile. Puoi, nella tua magnanimità, aiutarli, o divino Giulio?” Quell’enigma dermatologico aveva tanti difetti, ma come latore sapeva essere stucchevolmente sdolcinato.
“Certo, conosco bene questi problemi, ho passato anche io momenti del genere.” Una certa distensione si sciolse nella stanza e nel cerchio umano.
“Prestate quindi bene attenzione a quello che adesso vi dirò perché non mi ripeterò, ma se fate come vi dico non avrete più di che preoccuparvi.” Allora i quattro uomini, sempre mantenendo saldo il legame psichico, si avvicinarono, fino a quasi toccarla, alla strisciante miniatura della cattedrale wireless. Queste furono le lettere su cui si posò, lentamente, come fossero i passi di una tenera milonga inudibile:
B…
A…
C…
I…
A…
T…
E…
M…
I…
I…
L…
C…
U…
L…
O…
!
La presenza poi si dissolse, lasciando dietro di sè solo un peto di zolfo e il ricordo immobile. In silenzio la catena si era spezzata, gli uomini presero ognuno per sè a meditare su quelle parole, tornando a fissare con lo sguardo l’abbecedario. Adesso era il medium ad apparire nervoso e dopo aver preso dal mobile il modellino della casa di montagna se lo mise sulle gambe ad accarezzarlo come un gatto antistress. Dopo qualche istante il giovane fantasma dell’opera uscì dal torpore, cercò i suoi sodali con gli occhi e disse “Beh! Si può fare.” Accompagnando la sentenza allargando le mani in un gesto che significa accettazione di qualunque tiro mancino ti abbia combinato il destino. Gli altri si affrettarono a concordare, segno che le loro valutazioni avevano portato alla stessa conclusione. La seduta quindi era finita e i tre si potevano alzare parlottando soddisfatti. Il medium invece stava sudando nervosamente e nessuno di loro seppe dire se era il lamento di un gatto o di un bambino quello che si sentì all’improvviso provenire dall’interno del tetro modellino appollaiato.